giovedì 4 dicembre 2008

Sono anch'io di destra

Ho votato per la Sinistra alle ultime elezioni. Ma avrei fatto lo stesso nella Spagna di Zapatero e nell'America di Obama. Non per un fatto di nomi e cognomi, che si trovano lì, come nelle cantine si trovano scatole buone per ritirarvi gli addobbi di Natale. Lascio il culto della personalità con le sue psicologie rassicuranti alle rubriche sulla posta del cuore.

Di gran lunga mostrandomi in questa maniera più fragile, lo dico nascondendomi pusillanime nell'anonimato del nickname e del blog: il mio è un caso di sentimento. Io mi sento di sinistra. Lo dico con l'arroganza di chi sta imponendo uno sfregio, consapevole di arrecare in prima battuta un danno a chi davvero da questa parte, crede nella politica.

Del resto sono troppo impegnato a guardarmi dentro per ascoltare le motivazioni di coloro che sostengono le guerre preventive. Con queste premesse non resta altro che rimanersene sospesi tra le nuvole, senza i piedi per terra, in quella postura inevitabile di sognatore idealista. Niente perciò a che vedere con la concretezza del fare, dei self made man, della cultura d'impresa, dell'uomo che costruisce palazzi e che scrive lettere d'amore immaginandosi davanti un pubblico di canzoni d'autore.

Semmai ai fatti, ho scelto la forza delle idee che percorre gli animi eccitandoli, che armano le mani degli assassini e che le fanno congiungere in preghiera, credo alla frustrazione, al sottobosco notturno degli impotenti e dei traditori. Credo insomma che "non di solo pane vivrà l'uomo".

Così mi conobbe Carla.

Il mio carattere di narciso sinistrorso m'inibisce dunque alla leggerezza dell'essere. E proprio da questo prendersi sul serio, Carla non trascurò affatto di farsi sedurre. Con il pretesto d'innamorarsi delle mie parole si assicurò il futuro di avere accanto una coscienza paterna vocata per sua natura all'indulgenza ed alla comprensione. Trovò in me il confessore per tutti i peccati d'infedeltà di cui avrebbe potuto coprirsi. Un romantico dell'800 avrebbe detto che mia era solo la mente, non il cuore.

Appena conosciuti ci trovammo uniti sotto al riparo di ampi ombrelli d'ideali tipo "dal letame nascono i fiori" o "l'odio non si uccide con la violenza". Pensando insieme di migliorare il mondo con la nostra unione, puntammo a far crescere il rapporto in una intesa tutta intelletuale.

Dietro a quella scorta armata della ragione che doveva garantirci da imprevisti sentimentali di coppia, blindammo allora il nostro legame. Poche uscite con terzi, sempre io e lei, vita sociale pressochè azzerata.
Forse proprio a causa di queste chiusure, mi fu sufficiente notare uno sguardo di lei più interessato del solito a certe vetrine.
Così avvenne che durante le nostre passeggiate in centro, scoprii quanto lei in verità amasse soffermarsi proprio davanti ai negozi di gioielli. Vezzo femminile. Ma il passo successivo, che mi fece vacillare quel poderoso apparato di sicurezza messo in piedi, fu di sentirmi indicare anche quali avrebbe gradito per la prossima ricorrenza.

Motivandolo con la coerenza della mia natura mi sono sempre sentito impacciato per quel tipo di regali. Per fare certi doni devi avere un certo carattere. Come quello del fidanzato di mia moglie, di lì a non molto, riuscì senza ripensamenti a dimostrare.

Davanti ad amici comuni, la vidi in seguito esibire collezioni di bracciali a me sconosciute ma che bene velavano un subdolo rimprovero nei miei confronti. Il peggiore di questi trovò voce ad una festa in famiglia quando mio padre dandoci il benvenuto nell'ingresso di casa sua, arrivò a farle i complimenti per i gioielli che pensava io le avessi regalato.

E chi erano i suoi amici con cui cominciammo poi a vederci? Gente con cui non potevo condividere altro che discussioni sportive, persone fiere di se', donne in tailleur da uffici milanesi, uomini in carriera dall'ambizione attenuata nel vestire alla moda. Che quando si faceva il verso alla politica eravamo impegnati tutti quanti a sdottoreggiare l'inferiorità e la stupidità degli uomini di sinistra. L'unica differenza era che per me bastava annuire.

mercoledì 19 novembre 2008

Lotta impari

Il nero muterà in bianco, come quanto vi appare in chiaro diventerà scuro. Mi rendo conto che il mio matrimonio andrebbe meglio letto come il negativo del sacramento d'origine, riuscendo così soltanto a decifrarvi le metafore di cui abbisogna ancora oggi un'iniziazione per sopravvivere sotto ai colpi dell'indifferenza nichilista.
L'antica tradizione voleva che le nozze segnassero uno spartiacque tra l'incontro più o meno fornicante dei fidanzati e l'ingresso ad una sessualità coniugale "adulta", fatta di reciproco dono, liberata infine dalle barriere sociali costruite sull'imene.

Nella nostra storia di coppia, cominciata con rapporti di sesso talmente liberi da apparire da subito quasi routinari, Carla eresse un muro impenetrabile di castità proprio sopra la fede nuziale, avendovi annotata nella data ivi impressa, la fine dei nostri rapporti regolari.
Da quel giorno mi trovai impedito a completare qualsiasi specie di penetrazione che portasse quantomeno al mio orgasmo. Si fissò di trovare un colpevole per quasiasi movente: colpa del mio inopportuno e goffo desiderio, colpa della sua insoddisfazione. In mezzo, ridondante come in un foro legale, ci stava un vocabolario sterminato di attenuanti o aggravanti, ognuna in mio sfavore.

Questa coscienza di carattere introspettivo, di cui nel tempo ho preso possesso, e che tuttora mi aiuta a stemperare gli accessi laidi di eccitazione degenerati dalla continenza protratta, non poteva però essere tale ad una sera tra le strade di Niagara City, al ritorno da un ristorantino francese in cui lei, dinanzi a sconosciuti avverntori, era arrivata a farsi notare senza mutande. In auto non trovai oltremodo ragioni per non metterle le mani addosso e infilarne subito, e senza preliminari d'approccio, una sotto la gonna.
"Fammela vedere anche a me". Forte di quello spregiudicato esibire le nude intimità sotto il tavolo, tagliai corto con la certezza di abbattere un pupazzo di neve.
Ma anche qui vi trovai resistenza.
"Fermo! Non così" contrasse a morsa le cosce seminude, spostandomi le dita avide di sesso e riassestandosi spazientita la gonna stropicciata, "Così non mi piace" rimproverò, "qui...in auto...aspetta in albergo"
"Senti", dissi io, ma già con rassegnazione "Non ce la faccio più! Non ti chiedo tanto. Solo di farmela vedere un attimo"

Era quella una lotta di potere. A parte il sesso in sè, sul quale avrei saputo sorvolare, avrei voluto che per una volta mi si concedesse con un gesto pur minimo (nel caso specifico facendomela guardare). Una resa anche solo parziale, avrebbe aizzato l'arroganza che avrei ottenuto in cambio per aumentare in seguito la posta in gioco delle mie richieste. Un capriccio che lei dovette intuire subito. Difatti non cedette.

Finii per stringere le mani con veemenza sulla pelle del volante fino a torcerla facendovi leva con il polso. Esasperando poi la frizione in ripidi cambi di marcia e lasciando morire in un rancoroso silenzio le parole, arrivammo senza dirci null'altro fino all'hotel.
Per dimostrare più rabbia di quanto davvero ne avessi in corpo, fui davvero eccessivo nello sbattere le porte che man mano incontravo. A causa della mia andatura spedita lei rimase di qualche passo indietro. Senza badare a questioni di galanteria nè agli sguardi incuriositi dei presenti entrai per primo e a spron battente nella reception, poi nella sala TV qui adiacente, quindi nel corridoio e in camera.
Lei entrò poco dopo, giusto in tempo per vedermi gettare con foga e rumore le chiavi sulla prima mensola vicina.
"Bè?!" mi disse "Ti si è girata la testa?"
"Dove vuoi arrivare" rilanciai io "Andiamo a cena, tu senza mutande... e magari pretendi che io me ne stia buono buono!?". Il tono di voce mi divenne presto patetico e subdolamente, pur sfornando di continuo buone ragioni al discorso, non aiutava certo la mia frustrazione.
Mia moglie dovette avvertire una sorta di scoramento per rimanersene in silenzio in interminabili istanti. "Se è così" disse poi, "allora spogliati e mettiti in ginocchio".
Prima di obbedirle senza ritegno ricordo di avere eccepito qualcosa circa la forma, per quei modi giudicati come bruschi e pur con tutto, non idonei alla situazione. Ma sebbene le puntuali obiezioni, mi ritrovai nei fatti completamente nudo e smentito di fronte alla sua gonna e alla maglietta attillata che indossava con una scritta modaiola sul seno.
Ancora in quello stato di prostrazione vaneggiavo fosse lei ad aver ceduto alle mie basse voglie.
"Bravo" schernì compiaciuta dello spogliarello, "E adesso giù".
Le sue mani sulle spalle nude mi sollecitarono a scendere dinanzi a lei fino a sentire sotto le ginocchia la fredda porcellana delle piastrelle.
Che mi chiedesse di baciarla al basso ventre e scoparla sembrava ormai scontato, quando con sopresa la vidi dirigersi in punta di piedi verso la porta della stanza che dava sul corridoio esterno. Rimasi interdetto, più dei rischi che stavo correndo, per la mia assoluta incapacità di reagire. Nonostante il timore di essere esposto al corridoio e tradito nella fiducia che le stavo regalando a piene mani, non cambiai d'un centimetro la posizione sconveniente in cui mi trovavo, di profilo ma in perfetta traiettoria della porta. Carla invece fu altrettanto brava nel privarmi di questa gratuita soddisfazione, limitandosi dal canto suo a girare la maniglia ma soltanto per lasciarvi l'uscio socchiuso. Avere avuto paura a causa di vane illazioni a suo carico mi faceva oltremodo sentire in colpa.

Conclusa questa manovra dal sapore interlocutorio, fece ritorno davanti a me, privo com'ero di uno straccio di virilità sul pene ancora sgonfio, per sedersi su di uno sgabello e finalmente tirarsi su la gonna.
Vedevo in quelle condizioni e soltanto dopo altri uomini, per la prima volta nuda dal matrimonio, la natura della mia donna.

Non protetta a sufficienza da una snellita peluria tanto corta da sembrarmi albina come in risultato d'una puntigliosa depilazione, pareva chiamare in suo riparo a poca distanza i fascioni bianchi delle autoreggenti che di loro arrivavano però a stento ad avvolgere la parte superiore cosce.
Non so come ma fui sorpreso nel vedere il taglio delle labbra socchiuso in quella una congiunzione illibata dall'ultima volta (ormai settimane) che fummo insieme.
"Cosa aspetti?" sussurrò. Poi avvertendomi di non toccarla, rimase in posizione di attesa con le braccia incrociate e la fica oscenamente esposta.
Meccanicamente portai la mano sinistra sul membro per iniziare un meschino spettacolo di autoerotismo. Agli inizi non fu facile a causa della porta lasciata socchiusa che lasciava interferire gli echi di persone nel corridoio in tratti così nitidi quasi fossero in stanza. I vicini rincasavano con tutta la famiglia e io mi masturbavo davanti a mia moglie. Mi resi conto in quel momento di aver perduto qualsiasi genere di autorità non solo al suo cospetto ma anche di fronte ad altri uomini e pur sconosciuti.
"Vuoi vedere come si sarebbe potuto masturbare il cameriere che prima ti guardava dalla scala?" le suggerii arrendendomi con la voce bassa per non farmi sentire da fuori. Posso dire che non stavo più in me, sentendomi com'ero alla stregua di uno qualsiasi dei guardoni del ristorante.

L'eccitazione prese a montarmi vedendola sorridere complice. In bocca venivo assalito da una salivazione con il tempo sempre più nervosa. Mi guardai addosso abbassando lo sguardo. Come un ragazzo, mi stavo dando piacere ad un ritmo frenetico e man mano più difficile da mantenere senza il rischio di arrivare alla fine senza nemmeno averla baciata. Trovai lo sguardo di lei che osservava la mia mano vigliacca muoversi sulla cresta della mia eccitazione solitaria, lei così libera di pensare a qualsiasi cosa che persino fosse assente e lontana. Poco alla volta mi sentii sudare sotto le ascelle.

Avvertendo da quella distanza i profumi femminili di lavanda intima salirmi dal suo inguine alla testa, domandai allo strenuo della resistenza di ricevere in cambio di quella sciagurata esibizione almeno una carezza proibita che alleviasse il mio senso di alienazione per quel sesso da impotenti. L'ulteriore diniego che dovetti incassare non mi fece desistere dall'implorarla per venirle almeno addosso.
Mai prima d'allora avrei pensato di arrivare a tanto, in una camera d'albergo davanti alla mia donna, e in silenzio per la paura dei vicini.
Per frenare i primi sintomi di contrazioni orgasmiche che ormai facevano capolino sull'asta esasperata dalla sega, cominciai a ritrarre - ultimo tentativo - un poco all'indietro il bacino. Speravo che da un momento all'altro Carla cambiasse idea chiedendomi di penetrarla anche se solo per poche spinte. Neppure un finto segno di cedimento le mutò l'espressione beffarda del viso, malgrado le gocce di sudore mi segnassero la fronte. Di lì a poco sarei venuto e lei mi avrebbe lasciato finire senza dire nulla?

In breve fui costretto ad arrendermi sentendo senza scampo avanzare l'orgasmo ad opera esclusiva della mia mano sudicia. I primi fiotti uscirono di slancio come bambini in corsa verso una madre per cadere invece poco oltre per terra vicino agli staffili torniti dei suoi tacchi. Il restante colò sul tronco e tra i peli dei testicoli, scapigliati dalla sega.

Ora che mi ero privato di tutto avrei potuto qualsiasi cosa, ad esempio andarmene?
Come per farsi perdonare lei porse dal comodino un fazzoletto di carta che mi servisse a ripulire le tremule chiazze di sperma. Soltanto allora, una volta alzati, Carla mi abbracciò fortemente spingendosi a stretto contatto su di me con il suo bacino ancora nudo. Ma sotto quella spinta forte e diretta da cui venne sopraffatto il mio pene, fui costretto per effetto del suo tono scarso e a penzoloni, a limitarmi ad un superficiale sfregamento sulle pur tenere labbra, come ad un semplice contatto saffico.

venerdì 3 ottobre 2008

"Tuo padre è un uomo che scappa"

Mentre giravo la chiave per spegnere il motore non pensavo ad altro. E proprio perhè non riuscivo di sfuggire a quella monomania, che con tanti fatti stupidi e tutto il trascurabile di una serata insieme ho creato un mostro, un ricordo da collocare per intensità vicino alla nascita d'un figlio.
Già del tragitto in auto, ricordo una mia imprecazione ovattarsi e smorzarrsi nell'abitacolo della nostra macchina a causa d'un tizio in bicicletta che barcollando ci tagliò la strada. Ma appena mi feci forte dietro il parabrezza per indirizzargli un orgoglioso "Deficiente, cazzo fai?!", subito mi prese al petto una stretta tanto più intensa, quasi fossi in verità io il colpevole, perchè lei seduta al posto di passeggero, sotto la gonna non portava le mutandine.
Al parcheggio del ristorante ero sempre io ad aprirle la portiera per scendere. Agivo compiendo più gesti e azioni possibili (magari anche di galateo) soltanto per cercarvi sollievo dai miei eccessi di emotività. E non bastarono i suoi ringraziamenti di cortesia a farmi distrarre, o vederle aggrottarsi le sopraciglia perchè non trovava il cellulare in borsa: ad un semplice broncio, non potevo nemmeno far finta che sotto non avesse niente. Camminando poi a braccetto era il calpestio dei tacchi a non concedermi sollievo dalla mia ossessione. Ovunque potevamo essere, per me lei rimaneva esposta senza biancheria. Cercai allora conforto in un delirio di finta ragionevolezza per non affogare nel pathos, e sforzandomi di negare la realtà presi a convincermi che portasse un tanga pur sottilissimo e che le mie erano solo fisse.

Con questo ansiolitico cerebrale, arrivammo davanti all' "Arc en ciel" prenotato da Carla, con menù d'ispirazione francese. Un locale tutto sommato alla buona che lasciava la sensazione di un posto ristrutturato ad arte per metterci il ristorante.
Un atrio cieco faceva da ingresso. Sulla destra s'apriva una stanza con il solo bancone del bar e dietro a questi la toilette e le cucine. Per raggiungere invece la sala del ristorante dovemmo salire di fronte su una ripida rampa di scale chiusa tra due pareti fino al punto da dove uno dei muri laterali s'apriva alle balaustre in legno di un parapetto che s'affacciava sul salone con gli altri clienti già seduti.
L'effetto era di un ingresso dal basso. Confesso che allora il colpo d'occhio fu per il soffitto elegante in volte decorate in sfrontato contrasto con i tavoli di legno lasciati al grezzo e senza tovaglia. Ci sedemmo in uno tra i più vicini, lasciato libero con sopra il nostro nome della prenotazione, proprio a ridosso della ringhiera d'ingresso. Allora il mio artificioso sedativo mentale smise d'un fiato i suoi blandi effetti. Fui riportato al presente come per un pugno basso.
Vedevo per le scale l'andirivieni di clienti e camerieri, vedevo spuntare dal basso i capelli, poi il volto e le spalle di quelli che salivano oppure scendevano fino a scomparire nella tromba dell'androne. Rispetto a questo Carla si era messa in perfetta perpendicolare; io sull'unica sedia predisposta al suo fianco, con il posto a lei dirimpetto occupato dal telaio scarno di un carrello portavivande. A vederli passare ad uno ad uno i numerosi camerieri pregavo perchè fossero impegnati e presi di loro da non voltarsi e guardare di sghimbescio il parapetto traditore. Riprendevo a respirare solo quando scomparivano ingenui con i loro vassoi dalla nostra pericolosa traiettoria.

La gente non è come me, ha altro da pensare. Perciò decisi di ostentare forza di spirito e indifferenza e non cambiare di posto. Però Carla era davvero lì con una gonna di candido tessuto poco melangiato che da seduta terminava comunque a metà coscia appena di poco più sotto delle fasce autoreggenti delle calze, anch'esse bianche. Fosse stata almeno in scuro - pensavo - magari ne avrebbe perso in visibilità. Invece a proteggerle il fiore non c'era nemmeno un tanga. Se solo qualcuno per distrarsi si fosse voltato, da quelle scale avrebbe goduto di una vista senza impedimenti.
Come ultimo rimedio pensai che almeno Carla avrebbe salvato il salvabile accavallando le gambe una sull'altra. Fu tutto inutile, perchè quella sera voleva in toto disilludermi. Paradossalmente mi sentivo io spogliare da Carla ad ogni tentativo di difesa che provavo ad imbastire. Era come se lasciando le gambe semi aperte, fosse lei a togliermi le mutande davanti a sconosciuti. Mio malgrado dovetti accettare la realtà. Dovevo soltanto parlarle come si fa ad una cena. Ricordo che lo feci seriamente come mai prima chiedendole informazioni circa il sogno di suo padre di prendersi una casa in collina per andarci a passare week end libero dalla moglie. Dissentii con la più aperta indignazione: "Un uomo che scappa", le dissi qualcosa del genere. Moralizzai con in corpo le convinzioni e le idologie di un giovane contestatore.
Quanto fossi ridicolo non si sforzò lei a dimostrarmelo. Sulle mie spalle si poggiarono mani inaspettate. Il cameriere, un giovane di qualche anno in più di noi, mi si era confidenzialmente chinato alla maniera di un padre. Poi disse qualcosa che non potei tradurre per il mio scarso inglese, fino a vederlo scivolare come un animale proprio sotto il tavolo davanti ai piedi di Carla. Per difesa feci per chinarmi anch'io ma lui già stava risalendo con la testa porgendomi un tovagliolo evidentemente cadutomi per terra. Sorrise dicendomi qualcosa di gentile, ma io non seppi pensare ad altro che stesse occhieggiando alle nudità della mia donna, anche se con mia moglie fece in seguito sfoggio di una servizievole galanteria scambiandosi (io venivo ignorato) in tutta cortesia qualche consiglio per la degustazione degli ottimi vini della zona.

Inutile nascondermi che da quel momento in poi, mi toccò di assistere inerme ai colleghi di questo cameriere scambiarsi tra di loro sorrisetti d'ironia nel mentre che stazionavano sfrontati sui gradini più pericolosi. Un susseguirsi di gente. Fino a scorgervi i nostri vicini di tavolo, dei quali con i più disinvolti, con ancora il cibo che faticava a scendermi in gola, finii per incrociare gli sguardi guardandoli diritti negli occhi proprio di tra quelle balaustre dove fino pochi istanti prima avevano già potuto intravedere, rasa e di un morbido ritegno, la fica di mia moglie.

martedì 16 settembre 2008

Gelato al veleno

Non fu nulla la prima notte, ma nemmeno quella dopo e le altre ancora. E non che mancassimo di attenzioni e di tentazioni nel trascorrere delle ore e degli alberghi. Fatta salva la stanchezza per il viaggio, con tutte le inespressive, logore faccende da disbrigare (dove mangiare, a che ora ci parte il volo, quanto abbiamo in portafoglio, serve uno spazzolino nuovo, etc.), Carla non tralasciava affatto cura e attenzioni minuziose nell'acconciarsi, da apparire sovente d'inaspettata sensualità. Scendeva per colazione in eleganza serale di gonna scura aderente e stivale, la vidi girare per le strade più affollate in shorts di jeans tiratissimi da non contenere, al solo accenno di doversi piegare, per intero il sedere. Ci trovammo in bar e minimarket, a discutere insieme agli avventori conosciuti sul posto, con lei in camicetta bianca sottile annodata all'altezza dell'ombelico, con le mani affilate che gesticolavano sopra i polsini rigidi, e l'irregolare ampia scollatura sul petto fino a lambirle i seni per le prime due asole lasciate sbottonate.
Provai a spiegarmi quelle provocazioni come frutto del viaggio e della lontananza. Una divagazione aperta sui freddi costrutti di vite troppo provinciali. Dalla frontiera del proprio mondo ordinario in poi, poteva ricostruirsi liberamente una nuova immagine di sè senza impigliarsi nella rete vischiosa delle vecchie conoscenze. Sembrare porca e non renderne conto a nessuno. Sentirsi sporca ma senza nasconderlo sotto il tappeto.

Così del nostro viaggio di nozze in Canada ricordo la voglia negata di sesso, gli ammiccamenti diurni di mia moglie tranne quelli più ovvi in camera. Tanto non feci che di lì a poco arrivai in preda allo sconforto di un'amara disillusione, a masturbarmi in bagno prima di andare a dormire. E pure quando alla rassegnazione cominciava a prendere il posto la consolazione di avere una moglie "bianca", al riparo da puerili imprevisti, una sera Carla mi avvisò - testuali parole - che "non poteva indossare le mutandine".
Questo amore è un gelato al veleno: questa strofa, da sola, occupava allora la mia mente. Cos'altro? Provai un brivido, paura di cadere e di non trovare parole sufficientemente forti da farne capitolare le intenzioni. E così avvenne.
La semplice perversione mi venne allora venduta come forza delle circostanze. Quella gonna era fatta per essere indossata senza le mutande, per un'esigenza di moda, per un fatto di etichetta, per una questione di prezzo (visto anche quanto l'aveva pagata). Facendo leva su tali argomenti, che poi erano la mia inettitudine, si aggiudicò in questo modo il suo primo desiderio di spregiudicatezza. Il secondo che mi fece in regalo come ricompensa alla mia accondiscendenza, era di andarcene a cena in un locale di Niagara che lei stessa avrebbe prenotato.

martedì 9 settembre 2008

Una domenica diversa

Una domenica di foglie gialle con il sole d'autunno, romantici baci casti in color seppia, le risate con gli amici, fontane di petali di rose sopra un sagrato e frattali di luci cangianti spioventi da ogni angolo di cielo e dalle vetrate. Anche questo è l'album del nostro matrimonio. Ma ancora oggi sarebbe disonensto fissarsi sulle pose o sui lustrini ricercati dal fotografo. Questo era il giorno in cui sposai Carla.
Il nostro matrimonio fu in chiesa. E fu il raccolto, la mietitura della vera festa e dei nostri sogni di allora, che minuti e borghesi quali erano, stavano invero nei preparativi. Ci servimmo della fede come a teatro si spostano i pannelli dei fondali. La croce, l'alleluja, il sacramento sfilarono come nel giorno di Carnevale. Io detestavo Dio, lei utilizzò la religione come guepiere e rossetto. Il "Si, credo" che ci fecero pronunciare fu il prezzo che pagammo alla Chiesa per celebrare il rito davanti ai parenti.
Del resto gli invitati, specie i più stretti, ci ripagarono di gratitudine e risconoscenza. Dall'uscita in poi fu la solita pioggia entusiastica di eloqui premurosi, tipo: "complimenti, organizzazione impeccabile", "stai bene in elegante", " Dove l'avete trovato il castello?", "carino il métre", "e poi dove andate?".

Fin qui tutto bene; ma sebbene col tempo venissi blandito da ricordi ben più sgradevoli, ancora oggi mi trovo a scacciare da quelle facezie senza senso una visione, un concepimento, la prima mattonella dei fatti che in seguito si sarebbero affacciati espliciti alla nostra vita di coppia. Perchè io allora, accettai la cerimonia cattolica senza obiettare? Io che non ne potevo apparire solo indifferente, compiaciuto com'ero di contrastarne pubblicamente i principi. Io che ho sempre tenuto al mio ateismo senza sensi di colpa, perchè adesso - facendomi del male - offrivo ai miei cari l'oppurtunità di esprimere in volto stupore e ravvedersi?
Finsi di farle un dono, e lasciai sfumare la mia volontà per far posto alla sua, senza sollevare questioni. Lo feci con l'intenzione di poter vantare qualcosa in cambio, per avere lei, per Carla. Che di buona famiglia quale era scacciava, con la sua aria di meticolosa ambizione, i miei timori ricorrenti di trovarmi un giorno al fianco di 'una poco di buono', di essere svergognato e deriso dai conoscenti, con la paura di fondo di perderla. Invece di agire e coccolarla e di sedurla, mi limitavo a riporle tra le braccia il fardello pesante della mia fiducia. Sentendomi perciò in credito della mia innata onestà, continuavo ad aspettarmi che la trattasse, solo per questo, con il maggiore decoro e riguardo. Mi rendo conto di avere avuto sin da allora più aspettative che intraprendenza e che questo prima di iniziare significa perdere.

Così, alla luce delle corna che portai in seguito, rivedo la nostra bianca notte di nozze, quando braccato tra una matta voglia di averla nuda ed il desiderio di non apparire noioso e puerile, abbracciandomi teneramente, lei in vestaglia corta mi sussurrò di dormire.

domenica 7 settembre 2008

Uno scritto perduto

Per mettere insieme una semiseria spiegazione al mio infamante blog non ho trovato di meglio che una massima di Nietzsche. A grandi spanne dice che bisogna parlare solo quando non è dato di tacere e si deve parlare di qualcosa che si è superato. Questo per colpire al cuore della verità; il resto è solo chiaccherata, divagazione, pettegolezzo, letteratura.

Intanto io parlo al passato e la più ovvia conseguenza è che ciò di cui parlo risorge da lì. Sono stato un "pubblico" cornuto e ho giocato con mia moglie per la mia torbida eccitazione ad essere umilitato. Le ho edificato sopra profonde passioni il riparo indispensabile per vivere lontana da sensi di colpa la loro grande storia d'amore. Fui la corda elastica del primo lancio, il suo rassicurante istruttore, il nodo di sicurezza, la rete di salvataggio. Soltanto un inaspettato rovescio di fortuna volle che da tutto quel pericolo di rimorsi ed espiazioni, fu invece lui ad esserne travolto (e chissà se qualcuno un giorno troverà un responsabile in un infinitesimo difetto di costruzione).

Ma senza saltare gli ostacoli di quel che la mia memoria vorrà fissare nel blog, dirò che ciò di cui parlo l'ho comunque superato. Già mentre scrivo rivedo alterate le pur vivide impressioni, e la droga della mia imperturbabilità tutta intellettuale mi spinge a creare nuovi sensi, inediti significati a cose essenziali e persino estranee a quella lurida voglia. Una vita superata e tanto fertile fino a sentirla, per un eccesso di sensibilità, al di fuori di sè e confonderla con una storia di altri corpi.

venerdì 5 settembre 2008

Non è che rimanessi proprio immobile. Nella mia posizione, pur seduto sul bordo del letto, dondolavo, con le braccia tese all'indietro ad esibire un inutile equilibrio ad ogni sobbalzo del materasso.
Cosa facevo lì vestito di tutto punto, con i suoi abiti addosso: camicia, pantalone, calzini, scarpe e persino mutande che lei prima gli fece togliere. E lei al solito, senza nemmeno sforzarsi di mostrare una fittizia comprensione circa il mio stato, vestita tal quale era per cena, maglietta bianca corta all'ombelico con la marca sul seno e la gonnellina tipo kilt, come quando parlava di lavoro tra un bicchiere e un dolce. Come prima ma con i suoi capelli ricci biondi di cui riconoscerei ad una ad una le fragili ombre, lascivi e sfatti sul cuscino, e con quelle cosce quasi lattee di pallore sfrontatamente divaricate e strette a morsa lungo la shiena del suo amante. Mai mi è riuscito di ricondurre la sua bellezza quotidiana fatta di gesti insignificanti al significato di quel buio turpore morale cui mi sottoponeva.
Potevo solo guardare anche se ero in preda ad un delirio di eccitazione perversa, prigioniero dentro agli abiti di lui. Lo vedevo spingersi dentro prima adagio con una perizia lenta di un ricercatore in mezzo alle spoglie di una civiltà antica. Piano piano glielo infilava dentro scavandone le pareti, come a volere e prendere coscienza dell'attimo cui avrebbe saggiato il fondo. Sotto tutto ciò lo sguardo di lei puntato ai suoi occhi pieno di fiducia per quel sordido rituale di profanazione. Con me sarebbe stata sufficienza.
Senza l'esigenza di cambiare posizione era una progressione di spinte riverberata all'unisono dall'ondulare mio e dai rumori del letto. Quando poi lui affossandosi di piacere con la faccia sul cuscino le lasciò sgombro il volto al soffitto, lei ebbe un sussulto che non posso trascurare. Scostò la sua gamba destra solcata di continuo dagli scossoni delle spinte che lui le regalava e la poggiò con il polpaccio tremulo sulla mia spalla. Soddisfatta appieno da quell'improvvisato sollievo di bracciolo umano, per un attimo voltò il suo sguardo di lato per guardarmi - indisturbata da lui - dritto negli occhi. E fissandomi al colmo del piacere, sorrise quasi come per una gentilezza nei miei riguardi o meglio provò ad abbozzare un sorriso ma reso turpe per la bocca contratta e il fiato corto. Durò qualche istante poi avvertendo probabilmente l'imminenza dell'orgasmo di lui, richiamata all'ordine da un bisogno più impellente, non esitò affatto a privarmi di quella pur tenue attenzione, per riportare la gamba a stringere con ancora più vigore le prime contrazioni eiaculatorie che si affacciavano all'orgasmo dell'amante, e ricevere con priorità assoluta (sopra la mia eccitazione) l'ondata di orgasmo di lui.

giovedì 4 settembre 2008

Il pianto della bimba

Proprio non saprei dire cosa spinga una donna a rendere partecipe il compagno al suo stesso tradimento.
La teoria, tra le più più accreditate, vorrebbe una sorta di materno sentimento di compiacenza rivolto al proprio compagno: un regalo, una carota al coniglietto, un modo di renderlo felice. A lui non piace in fondo di essere tradito?
Tutto questo ha il sapore della buona coscienza con il suo contorno di partigiano tatticismo. E' il vestito elegante per un gesto infamante. Il gusto di un primitivo: lo uccido per non farlo soffrire.
Perchè non battere un'altra strada, forse più freudiana e perciò meno amata. Ci dev'essere un ostinato senso di competizione nel rapporto, che spinga la donna ad affermare e a lusingarsi del proprio potere nei confronti del partner. Dev'essere una donna che si autocompiaccia di avere al suo fianco un uomo inetto, o almeno inetto più di lei, e allo stesso tempo di rimando compianga la propria sfortunata sorte. Un'autoaffermazione quindi prima che un atto di generosità.
Amo pensare che anche mia moglie nei miei confronti abbia potuto nutrire in certi momenti un senso di vergogna, un "errore" di percezione all'origine del proprio matrimonio che creda di poter tacitare solo gridandolo al mondo (rendendomi cornuto e consapevole).
In sintesi come nel pianto di una bambina.

Dopo una pizza

Sono seduto sul mio, sul nostro letto. Meno di un'ora fa stavo seduto in pizzeria.
Cosa cambia. Eravamo, siamo in tre. Ero a disagio prima; lo sono adesso. Cambia che adesso tengo tra le dita la bustina del loro profilattico. Lei perentoria me lo ha ordinato: "Mettiglielo su".
Stanno di lato, lei sdraiata supina ancora vestita come in pizzeria. Meno le mutandine, si è raccomandata che gliele ritirassi nel suo comodino. Lui invece è inginocchiato di fronte a lei, completamente nudo di fronte alla gonnellina morbida, ultimo inadeguato baluardo alle intimità di lei ormai scoperte all'aria. Soltanto il seno si salva sotto al riparo della maglietta aderente che, pudicamente, si limita a rivestire il turgore dei capezzoli. E' eccitato e mi guarda con un certo nervosismo. Vorrebbe più celerità da parte mia?
Io come sempre sto per obbedirle. Apro di taglio la bustina. L'odore di lattice mi finisce sulle mani. Quante volte ho avuto gesti così banali. Ora invece i pensieri corrono copiosi in fretta, accorrono come per consolarmi, per cercare una spiegazione razionale che plachi il disagio di quel che sto facendo. In fondo, stai di nuovo obbedendo a lei.
Prendendo l'anello elastico con tutte due le mani mi avvicino al membro di lui accostandomi timoroso come a cercarvi appigli anche con l'olfatto. Svetta carminio, sul cusinetto carnoso di prepuzio sempre meno bastante, il glande di lui osceno di voglia; e quando lo afferro di pugno per il tronco ormai giunto all'acme di una parossistica venosità, per tenerlo fermo e srotolarglielo fino alla base, una goccia precorritrice di liquido s'affaccia dalla punta . Troppo tardi ti ho già infilato. E' stato breve, merito specie del suo turgore che mi ha sollevato da quel lavoro paggesco. Adesso può entrare senza indugi e scoparmela davanti agli occhi.